Su un punto di vista euristico relativo alla produzione e trasformazione della luce
di A. Einstein

Traduzione dal tedesco di A. Chierico dall’originale
“Über einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden heuristischen Gesichtspunkt“, Annalen der Physik 17 (1905)

Fra le rappresentazioni teoriche, che i fisici si sono costruite sui gas ed altri corpi ponderabili, e la teoria maxwelliana dei processi elettromagnetici nel cosiddetto spazio vuoto esiste una profonda differenza formale. Mentre noi infatti consideriamo come completamente determinato lo stato di un corpo attraverso le posizioni e velocità di un numero assai grande tuttavia finito di atomi ed elettroni, per la determinazione dello stato elettromagnetico di uno spazio ci serviamo di funzioni spaziali continue, cosicché un numero finito di grandezze non è più da ritenere sufficiente per la definizione completa dello stato elettromagnetico. Secondo la teoria maxwelliana, l’energia per tutti i fenomeni puramente elettromagnetici, quindi anche per la luce, è da concepire come funzione continua dello spazio, mentre l’energia di un corpo ponderabile, secondo la concezione attuale dei fisici, è da rappresentare come una somma estesa agli atomi ed elettroni. L’energia di un corpo ponderabile non può disgregarsi ad arbitrio in molte, arbitrariamente piccole parti, mentre, secondo la teoria maxwelliana (o più in generale secondo ogni teoria ondulatoria) della luce, l’energia di un raggio di luce emesso da una sorgente luminosa puntiforme si distribuisce in modo continuo su un volume sempre crescente.

La teoria ondulatoria della luce, operante con funzioni spaziali continue, ha dato eccellente prova di per la descrizione di fenomeni puramente ottici, e non sarà mai sostituita da un’altra teoria. È tuttavia da tenere presente che le osservazioni ottiche riguardano medie temporali, ma non valori istantanei, e, nonostante la completa conferma della teoria della diffrazione, riflessione, rifrazione, dispersione, etc., da parte dell'esperimento, si può ben immaginare che la teoria operante con funzioni spaziali continue conduca a contraddizioni con l’esperienza quando la si applichi a fenomeni di generazione e trasformazione della luce.

In realtà mi sembra che le osservazioni sulla “radiazione nera”, la fotoluminescenza, la generazione di raggi catodici da luce ultravioletta, ed altri gruppi di fenomeni riguardanti la generazione, e rispettivamente trasformazione, della luce, appaiano meglio comprensibili sotto l’ipotesi che l’energia della luce sia distribuita in modo discontinuo nello spazio. Secondo questa ipotesi da tenere presente, durante la propagazione di un raggio di luce uscente da una sorgente puntiforme, l’energia non viene distribuita su spazi sempre più grandi, bensì essa è costituita da un numero finito di quanti di energia localizzati in punti dello spazio, i quali si muovono senza suddividersi, e possono essere assorbiti e generati solo per intero.

Nel seguito voglio esporre il ragionamento, e produrre i dati di fatto, che mi hanno condotto su questa strada, nella speranza che il punto di vista che intendo esporre possa dimostrarsi utile ad alcuni ricercatori nelle loro indagini.

§ 1. Su una difficoltà inerente la teoria della “radiazione nera”.

Ci poniamo dapprima nel punto di vista della teoria maxwelliana e della teoria elettronica, e consideriamo il caso seguente. In uno spazio racchiuso tra pareti perfettamente riflettenti si trovi un certo numero di molecole di gas ed elettroni, liberi di muoversi ed esercitanti fra loro forze conservative quando siano molto ravvicinati fra loro, cioè come le molecole di gas che, secondo la teoria cinetica, possono urtare fra loro. 1) Un certo numero di elettroni sia inoltre vincolato in punti dello spazio, molto distanti fra loro, da forze proporzionali all’elongazione rivolte verso questi punti. Anche questi elettroni devono esercitare interazione conservativa con le molecole ed elettroni liberi quando questi giungono molto vicini a loro. Gli elettroni vincolati a punti dello spazio, noi li chiamiamo “risonatori”: essi inviano onde elettromagnetiche di dato periodo, e ne assorbono altrettante.

Secondo l’attuale opinione sulla genesi della luce, la radiazione nello spazio considerato, che in base alla teoria maxwelliana viene trovata per il caso dell’equilibrio dinamico, dovrebbe essere identica alla “radiazione nera” - almeno quando vengono ritenuti presenti risonatori di tutte le frequenze considerabili.

Prescindiamo per il momento dalla radiazione emessa ed assorbita dai risonatori, e ricerchiamo la condizione per l’equilibrio dinamico corrispondente all’interazione (gli urti) fra molecole ed elettroni. La teoria cinetica dei gas fornisce per quest’ultimo la condizione che la forza viva media di un elettrone deve essere uguale all’energia cinetica media del moto progressivo di una molecola di gas. Se scomponiamo il movimento dell’elettrone risonatore in tre moti oscillatori fra loro ortogonali, troviamo per il valore medio Ē dell’energia di un tale moto oscillatorio rettilineo

dove R indica la costante assoluta dei gas, N il numero “effettivo” di molecole in un grammo-equivalente, e T la temperatura assoluta. L’energia Ē è appunto, per l’uguaglianza dei valori medi nel tempo tra energia cinetica e potenziale del risonatore, i della forza viva di una molecola libera di gas monoatomico. Se ora per una qualsiasi causa - nel caso nostro attraverso processi di radiazione - si facesse in modo che l’energia di un risonatore possieda un valore medio nel tempo maggiore o minore di Ē , allora gli urti con gli elettroni e molecole liberi condurrebbero ad una cessione di energia, mediamente diversa da zero, al gas, e rispettivamente prelevamento di energia dal gas. Quindi nel caso da noi considerato l’equilibrio dinamico è possibile solo allorché ogni risonatore possiede l’energia media Ē .

Una riflessione analoga la facciamo ora relativamente all’interazione fra i risonatori e la radiazione presente nell’ambiente. Il sig. Planck, per questo caso, ha ricavato la condizione per l’equilibrio dinamico 2) nell’ipotesi che la radiazione possa venire considerata come un processo il più disordinato immaginabile. 3) Egli trovò:
,
Ē , in questo caso, è l’energia media di un risonatore di frequenza propria ν (per ciascuna componente di oscillazione), L la velocità della luce, v la frequenza e l’energia per unità di volume di quella parte della radiazione la cui frequenza sta tra v e v+dv.

Se l’energia di radiazione di frequenza v non venisse in modo continuo nel suo complesso aumentata diminuita, allora deve valere
,

Questa relazione trovata come condizione per l’equilibrio dinamico può fare a meno non solo dell’accordo con l’esperienza, bensì afferma pure che nella nostra immagine non è il caso di parlare di una determinata distribuzione di energia fra etere e materia. Infatti, quanto più ampio viene scelto l’intervallo delle frequenza dei risonatori, tanto maggiore diventa l’energia di radiazione dello spazio, e noi otteniamo, al limite
.

§ 2. Sulla determinazione di Planck dei quanti elementari.

Nel seguito vogliamo mostrare che la determinazione, fornita dal sig. Planck, dei quanti elementari è, fino ad un certo grado, indipendente dalla teoria della “radiazione nera”, da lui istituita.

La formula di Planck 4) per ρ ν soddisfacente a tutte le esperienze a tutt’oggi, recita
,
dove

Per valori grandi di , cioè per grandi lunghezze d’onda e densità di radiazione, questa formula, al limite, diventa la seguente:

Si riconosce che questa formula è in accordo con quella al § 1, sviluppata dalla teoria Maxwelliana e da quella elettronica. Uguagliando i coefficienti delle due formule si ottiene:

ovvero

cioè un atomo di idrogeno pesa 1 /N grammi = 1,62∙10-24 g. Questo è esattamente il valore trovato dal sig. Planck, che concorda in modo soddisfacente con i valori trovati per altre vie.

Arriviamo perciò alla conclusione: quanto maggiore è la densità di energia, e la lunghezza d’onda, di una radiazione, tanto più accettabili si dimostrano i fondamenti da noi utilizzati; ma per piccole lunghezze d’onda, e piccole densità di radiazione, questi falliscono del tutto.

Nel seguito, la “radiazione nera” sarà considerata in relazione all’esperienza, senza porla a base di una immagine sulla genesi e propagazione della radiazione.

§ 3. Sull’entropia della radiazione

La seguente considerazione è contenuta in un famoso lavoro del sig. W. Wien, e trova qui posto solo per ragioni di completezza.

Si abbia una radiazione, che occupi il volume v . Noi assumiamo che le proprietà percepibili della presente radiazione siano completamente determinate quando sia data 5) la densità di radiazione r ( v ) per tutte le frequenze. Siccome radiazioni di diverse frequenze sono da considerare separabili senza effettuazione di lavoro e senza fornitura di calore, allora l’entropia della radiazione è rappresentabile nella forma

dove φ indica una funzione delle variabili ρ e ν . Si può ridurre φ ad una funzione di una sola variabile formulando l’enunciato che per compressione adiabatica di una radiazione fra pareti speculari la sua entropia non venga variata. Tuttavia non ci vogliamo addentrare in questo, ma indagare subito come la funzione φ possa venire individuata dalla legge di radiazione del corpo nero.

Per la “radiazione nera”, ρ è una funzione di v tale che l’entropia, per data energia, raggiunge un massimo, cioè che

quando

Da qui segue che per ogni scelta del δρ in funzione di ν

dove λ è indipendente da ν . Per la radiazione nera è quindi indipendente da v .

Per l’incremento dT della temperatura di una radiazione nera di volume v =1, vale l’equazione

oppure, dal momento che è indipendente da v :

Siccome dE è uguale al calore fornito, ed il processo è reversibile, vale anche:

Per confronto si ottiene:

Questa è anche la legge della radiazione nera. Si può dunque dalla funzione φ determinare la legge della radiazione nera e, viceversa, da quest’ultima, per integrazione, la funzione φ , avendo riguardo che φ svanisce per r =0.

§4. Legge limite per l’entropia della radiazione monocromatica nel caso di minima densità di radiazione.

Dalle osservazioni fatte fin qui sulla “radiazione nera” emerge che la legge originariamente istituita dal sig. W. Wien per la “radiazione nera”

non è esattamente valida. Ma la cosa per grandi valori di ν / T venne confermata perfettamente dall’esperimento. Poniamo questa formula a base dei nostri calcoli, tenendo però a mente che i nostri risultati valgono solo entro certi limiti.

Da questa formula risulta dapprima:

ed ancora, facendo uso della relazione trovata al paragrafo precedente:

Sia data ora una radiazione di energia E, la cui frequenza stia fra ν e ν +d ν . La radiazione occupi il volume v . L’entropia di questa radiazione è:

Se ci limitiamo a indagare la dipendenza dell’entropia dal volume occupato dalla radiazione, ed indichiamo con S₀ l’entropia della radiazione, nel caso che questa occupi il volume ν₀ , allora otteniamo:

Questa equazione mostra che l’entropia di una radiazione monocromatica, di densità sufficientemente piccola, varia col volume secondo la stessa legge come l’entropia di un gas ideale o di una soluzione diluita. L’equazione appena trovata verrà in seguito interpretata sulla base del principio introdotto in fisica dal sig. Boltzmann, secondo cui l’entropia di un sistema è una funzione della probabilità del suo stato.

§5. Studio, secondo la teoria molecolare, della dipendenza dal volume per i gas e soluzioni diluite.

Nel calcolo dell’entropia secondo il percorso della teoria molecolare viene sovente applicata la parola “probabilità” con un significato che non collima con la definizione di probabilità come essa viene data nel calcolo delle probabilità. In particolare i “casi di uguale probabilità” vengono sovente assegnati per ipotesi in casi in cui le immagini teoriche impiegate sono sufficientemente determinate per fornire una deduzione, invece di quella assegnazione per ipotesi. In un lavoro particolare io mostrerò che nelle considerazioni su processi termici ce la caviamo perfettamente con la cosiddetta “probabilità statistica”, e spero con ciò di eliminare una difficoltà logica che ancora si frappone all’attuazione del principio di Boltzmann. Ma qui occorre solo darne la sua formulazione generale e la sua applicazione a casi del tutto particolari.

Se ha senso parlare della probabilità dello stato di un sistema, e se, inoltre, ogni incremento di entropia può venire concepito come una transizione in uno stato più probabile, allora l’entropia S₁ di un sistema è una funzione della probabilità W₁ del suo stato istantaneo. Se dunque abbiamo due sistemi S₁ ed S₂ , non interagenti fra loro, allora si può porre:

Se si considerano questi due sistemi come un unico sistema di entropia S e probabilità W , allora è:

e
.

L’ultima relazione asserisce che gli stati dei due sistemi sono eventi indipendenti fra loro.

Da queste equazioni segue:

e da qui finalmente

La grandezza C è quindi una costante universale; essa, come segue dalla teoria cinetica dei gas, ha il valore R/N , dove alle costanti R ed N viene attribuito il medesimo significato di cui sopra. Se S₀ rappresenta l’entropia per un certo stato iniziale di un sistema considerato, e W la probabilità relativa di uno stato di entropia S , allora otteniamo, in generale:

Trattiamo dapprima il seguente caso particolare. In un volume v₀ ci sia un certo numero ( n ) di punti mobili (p. es., molecole), ai quali deve riferirsi il nostro ragionamento. Oltre a questi possono essere presenti ad arbitrio in quello spazio ancora altri punti mobili di qualsivoglia tipo. Sulla legge secondo cui i punti considerati si muovono nello spazio non sia fatta nessuna ipotesi, tranne che in relazione a questo moto nessuna parte dello spazio (e nessuna direzione) sia privilegiata rispetto alle altre. Il numero dei punti mobili considerati (i primi menzionati) sia inoltre così piccolo da poter prescindere da ogni interazione reciproca.

Al sistema considerato, che p. es., può essere un gas ideale o una soluzione diluita, compete una certa entropia S₀ . Immaginiamoci una parte del volume v₀ , di grandezza v , e tutti gli n punti mobili trasferiti nel volume v senza che nulla venga mutato nel sistema. A questo stato compete manifestamente un altro valore dell’entropia ( S ), e noi vogliamo determinare la differenza di entropia con l’aiuto del principio di Boltzmann.

Ci domandiamo: quanto è grande la probabilità dell’ultimo stato rispetto a quello originario? Oppure: quanto è grande la probabilità perché in un istante preso a caso tutti gli n punti di un volume v₀ , in moto indipendente fra loro, si trovino (casualmente) nel volume v ?

Per questa probabilità, che è una “probabilità statistica”, si ottiene manifestamente il valore:

da qui, adottando il principio di Boltzmann:

È degno di nota che per ricavare questa equazione, da cui si può facilmente derivare per via termodinamica la legge di Boyle-Gay-Lussac, e quella, dello stesso tenore, della pressione osmotica 6) , non occorre fare nessuna ipotesi sulla legge secondo la quale le molecole si muovono.

§ 6. Interpretazione dell’espressione per la dipendenza dell’entropia della radiazione monocromatica dal volume, secondo il principio di Boltzmann.

Al § 4 abbiamo trovato per la dipendenza dell’entropia della radiazione monocromatica dal volume l’espressione:
.

Se questa formula si scrive nella forma:

e la si confronta con la formula generale, esprimente il principio di Boltzmann

si perviene così alla seguente conclusione:
Se una radiazione monocromatica di frequenza ν ed energia E è racchiusa (mediante pareti speculari) nel volume v₀ , allora la probabilità che in un istante di tempo arbitrariamente scelto tutta l’energia di radiazione si trovi nella parte v del volume v₀ è

Da qui concludiamo ancora:
Una radiazione monocromatica di minima densità (entro i limiti di validità della formula di Wien) si comporta, in relazione alla teoria del calore, come se fosse costituita da quanti di energia fra loro indipendenti e di grandezza Rβν / N .

Vogliamo ancora confrontare il valore medio dei quanti di energia della “radiazione nera” con la forza viva media del moto del baricentro di una molecola alla medesima temperatura. Questa è , mentre per il valore medio del quanto di energia, in base alla legge di Wien, si ottiene:
.

Se ora una radiazione monocromatica (di densità sufficientemente piccola) si comporta, quanto a dipendenza dell’entropia dal volume, come un mezzo discontinuo costituito da quanti di energia di grandezza Rβν / N , è allora ovvio esaminare se anche le leggi della genesi e trasformazione della luce siano tali come se la luce fosse costituita da quanti di energia di quello stesso tipo. Di questa questione ci occuperemo in seguito.

§ 7. Sulla regola di Stokes.

Una luce monocromatica venga, attraverso fotoluminescenza, trasformata in luce di altra frequenza, e si assuma, conformemente al risultato testé conseguito, che tanto la luce da generare, quanto quella generata, siano costituite da quanti di energia di grandezza ( R/N ) βν , dove ν rappresenta la loro frequenza. Il processo di trasformazione deve allora essere interpretato nel modo seguente. Ogni quanto di energia da generare, di frequenza ν₁ , viene assorbito, e - almeno per densità di distribuzione sufficientemente piccola dei quanti di energia da generare - fornisce per conto proprio l’occasione per l’insorgenza di un quanto di luce di frequenza ν₂ ; eventualmente, durante l’assorbimento del quanto di luce da generare possono contemporaneamente formarsi quanti di luce delle frequenze ν₃ , ν₄ , ecc., come pure energia di altra specie (p. es., calore). Per intervento di quali processi intermedi si pervenga a questo risultato finale, è indifferente. Se la sostanza fotoluminescente non è da ritenersi una fonte continua di energia, allora, secondo il principio dell’energia, l’energia di un quanto generato non può essere maggiore di quella di un quanto da generare, deve quindi valere la condizione:
,
ovvero
.

Questa è la ben nota regola di Stokes.

È da porre specialmente in rilievo che per debole illuminazione la quantità di luce generata deve essere, secondo la nostra concezione, proporzionale a quella eccitante, a parità delle altre condizioni, dal momento che ciascun quanto di energia eccitante provocherà un processo elementare del tipo indicato sopra, indipendentemente dall’azione degli altri quanti di energia eccitanti. In particolare non ci sarà nessun limite inferiore per l’intensità della luce eccitante, al di sotto del quale la luce non sarebbe in grado di agire come luminescente.

Deviazioni dalla legge di Stokes, secondo la concezione esposta dei fenomeni, sono da ritenersi nei seguenti casi:
1. quando il numero di quanti di energia per unità di volume, considerati in contemporanea trasformazione, è così grande che un quanto di energia della luce generata può ricevere la sua energia da parecchi quanti di energia generatori;
2. quando la luce da generare (o generata) non ha quelle caratteristiche energetiche che competono ad una “radiazione nera” nell’ambito di validità della legge di Wien, quindi quando, p. es., la luce eccitante è generata da un corpo di temperatura così elevata che per la conseguente lunghezza d’onda la legge di Wien non sia più valida.

La possibilità ultima nominata merita un interesse particolare. Secondo la concezione sviluppata, infatti, non è escluso che una “radiazione non del tipo Wien” anche per grande diluizione si comporti, in senso energetico, diversamente da una “radiazione nera” nell’ambito di validità della legge di Wien.

§ 8. Sulla generazione di raggi catodici per irraggiamento di corpi solidi.

L’opinione comune, che l’energia della luce sia distribuita in modo continuo in tutto lo spazio irradiato, incontra, specialmente nel tentativo di spiegare i fenomeni fotoelettrici, grandi difficoltà che sono esposte in un lavoro pionieristico del sig. Lenard. 7)

Secondo la concezione che la luce eccitante sia costituita da quanti di energia ( R/N ) βν , la generazione di raggi catodici da parte della luce può intendersi così. Nello strato superficiale del corpo penetrano quanti di energia, e la loro energia si converte, almeno in parte, in energia cinetica degli elettroni. L’immagine più semplice è quella che un quanto di luce ceda tutta la sua energia ad un unico elettrone ; ammettiamo che ciò avvenga. Non è tuttavia da escludere che elettroni assumano solo parzialmente energia da quanti di luce. Un elettrone all’interno del corpo, dotato di energia cinetica, quando esso abbia raggiunto la superficie, ci avrà rimesso una parte della sua energia cinetica. Inoltre si dovrà assumere che ogni elettrone nell’abbandonare il corpo deve effettuare un certo lavoro P (caratteristico del corpo). Con la massima velocità perpendicolare lasceranno il corpo gli elettroni eccitati direttamente alla superficie, e normalmente a questa. L’energia cinetica di tali elettroni è
.

Se il corpo è carico a potenziale positivo Π , ed è circondato da conduttori a potenziale zero, e se Π è proprio in grado di impedire una perdita di elettricità del corpo, allora deve essere:
,
dove ε indica la massa elettrica dell’elettrone, ovvero
,
dove E indica la carica di un grammo-equivalente di uno ione monovalente, e P il potenziale di questa quantità di elettricità negativa rispetto al corpo. 8)

Se si pone E = 9,6∙103 , allora Π ∙10-8 è il potenziale, in Volt, che il corpo assume per irraggiamento nel vuoto.

Per vedere dapprima se la relazione derivata concorda, quanto ad ordine di grandezza, con l’esperienza, poniamo P ’ = 0, v = 1,03∙1015 (corrispondente al limite dello spettro solare dalla parte dell’ultravioletto) e β = 4,866∙10-11 . Otteniamo Π∙10 7 = 4,3 Volt, il quale risultato coincide, quanto ad ordine di grandezza, con i risultati del sig. Lenard. 9)

Se la formula ottenuta è esatta, allora Π , rappresentato in coordinate cartesiane in funzione della frequenza della luce eccitatrice, deve essere una retta la cui pendenza è indipendente dalla natura della sostanza in esame.

La nostra opinione, per quanto ne vedo io, non è in contraddizione con le proprietà dell’effetto fotoelettrico osservate dal sig. Lenard. Se ogni quanto di energia della luce incidente cede, indipendentemente da tutti gli altri, la sua energia agli elettroni, allora la distribuzione di velocità degli elettroni, cioè la qualità della radiazione catodica generata, sarà indipendente dall’intensità della luce incidente; d’altra parte il numero degli elettroni che abbandonano il corpo sarà, a parità delle altre circostanze, proporzionale all’intensità della luce incidente. 10)

Sui presumibili limiti di validità delle menzionate leggi ci sarebbero da fare analoghe osservazioni come nei riguardi delle presunte deviazioni dalla regola di Stokes.

In precedenza si è supposto che l’energia di almeno una parte dei quanti di energia delle luce da generare venga ceduta completamente ad un singolo elettrone per volta. Se non si fa questa ovvia ipotesi, allora al posto dell’equazione di cui sopra si ottiene la seguente:
.

Per la luminescenza catodica, che rappresenta l’evento inverso di quello appena considerato, si ottiene, attraverso una considerazione analoga a quella effettuata:
.

Per le sostanze esaminate dal sig. Lenard, P E è sempre significativamente maggiore di Rβν , dal momento che la tensione che i raggi catodici debbono aver attraversato, proprio per poter generare luce visibile, ammonta in certi casi ad alcune centinaia, in altri a migliaia di Volt. 11) Si deve dunque assumere che l’energia cinetica di un elettrone viene utilizzata per la creazione di parecchi quanti di energia.

§ 9. Sulla ionizzazione dei gas mediante luce ultravioletta.

Noi assumeremo che per la ionizzazione di un gas mediante luce ultravioletta, un quanto d’energia di luce assorbito viene utilizzato per la ionizzazione di una molecola di gas. Da qui segue in primo luogo che il lavoro di ionizzazione (cioè il lavoro teoricamente necessario per la ionizzazione) di una molecola non può essere maggiore dell’energia di un quanto efficace di energia luminosa. Se si indica con J il lavoro (teorico) di ionizzazione per grammo-equivalente, deve essere allora:
.

Ma secondo le misure di Lenard, la massima lunghezza d’onda efficace per la luce è ca. 1,9∙10-5cm, quindi
.

Un limite superiore per il lavoro di ionizzazione lo si ottiene anche dalle tensioni di ionizzazione in gas rarefatti. Secondo J. Stark 13) la minima tensione di ionizzazione misurata (ad anodi di platino) per l’aria è ca. 10 Volt. 14) Ne risulta dunque per J il limite superiore 9,6∙1012, che è all’incirca uguale a quello appena trovato. Risulta ancora un’altra conseguenza, la cui verifica attraverso l’esperimento mi sembra abbia grande importanza. Se ogni quanto di energia luminosa assorbito ionizza una molecola, allora fra la quantità L di luce assorbita ed il numero j di grammomolecole ionizzate dalla stessa deve intercorrere la relazione:
.

Questa relazione, se la nostra opinione corrisponde alla realtà, deve valere per ogni gas il quale (per la frequenza in oggetto) non mostri nessun assorbimento degno di nota, accompagnato da ionizzazione.

Berna, 17 marzo 1905.
(ricevuto 18 marzo 1905.)